Quella sera doveva accadere qualcosa di insolito

Mi trovavo dalle parti della val Susa. Quell’itinerario in moto faceva parte del progetto per celebrare in modo indimenticabile i miei cinquant’anni. Un piacevole tragitto tra le Alpi a cavallo tra Italia e Francia. Avevo trovato un pernottamento a Meana.

Non avrei mai oltrepassata la porta di quell’albergo in condizioni normali. Ma normali non lo erano. Quella sera doveva accadere qualcosa di insolito. Lo stavo cercando e la sorte mi ha aiutato.

Ero reduce da un incontro, brevissimo per il vero, con una donna che rappresentava il mio lontano passato. Mi legava a lei l’amicizia più longeva in assoluto e momenti indimenticabili. In questo clima roseo e piacevole partivo da Torino verso Susa per cercare un posto dove dormire. E’ stata una pura casualità trovare il Bellavista, digitando qualche tasto sul navigatore satellitare.

La voce al telefono era di donna, cordiale e piacevole. Ho mentalmente preso appunti e ho acceso il motore dirigendomi verso Meana di Susa. La notte precedente, la prima del tour del cinquantenario, l’avevo trascorsa in una deliziosa e confortevole pensione con annessa pizzeria. Il posto giusto per chi gira in moto, lungo la strada che scende dal Col di Tenda e prima di salire al Colle della Maddalena. Ad un certo momento del pomeriggio avanzato inizi a gettare lo sguardo alle insegne che scorrono veloci e speri di trovare quel posticino carino e a prezzi modici. Ero stato veramente fortunato in quell’occasione. Tutto era nuovo e pulito, pareva inaugurato da poco. Il prezzo, poi, più che onesto.

Ormai era troppo tardi per cambiare idea quando mi sono trovato di fronte a quell’edificio che solo la scritta sul muro qualificava come albergo. Grigio nei muri invecchiati, disadorno al limite del penoso. Un disordine ed una confusione nel minuscolo giardinetto che pareva in abbandono da secoli. L’ingresso nella semioscurità dava accesso ad un locale che ho riconosciuto come bar. Luci spente, odori forti, arredi vecchi, non un cane.

Mi sbagliavo. Un bel Collie stava seduto a terra molto vicino alle gambe della sua padrona che mi veniva incontro. Un’anziana signora, spettinata e vestita in modo poco consono al suo ruolo, mi dava il benvenuto nel suo albergo. Ho deciso in quell’attimo di accettare qualsiasi cosa che mi riserbasse il caso, sia per l’ora tarda che per il gusto della sfida.

Dentro di me ero confuso. Cosa mi faceva restare? Sapevo perfettamente che quel posto era tutto il contrario di quello che avrei desiderato; ovvero comfort, pulizia, gradimento, ottimo cibo. Ho forzato il mio volere e ho spinto il motomezzo oltre il cancello rugginoso, parcheggiando tra rottami di sedie e ombrelloni da giardino. Da quanti anni qualcuno non sistemava quel posto, mi chiedevo.

Trovata in terra una vecchia tovaglia di plastica a quadri rossi ho coperto lo scooter per la notte, rientrando con il bagaglio. Il cane, da quando ero entrato la prima volta, non mi aveva perso di vista un istante. La preoccupazione fu sciolta dalla signora Olimpia. Dal momento che mi aveva accolto, disse, facendomi accomodare, aveva lanciato un segnale al cane. Potevo e dovevo stare tranquillo. Non ho visto altri esseri viventi all’infuori di loro fino al mattino seguente. Mi sentivo perso in quell’ ambiente silenzioso e antico.

Ero stregato dalla sua voce. Olimpia sapeva dire le cose più semplici con il tono giusto e le parole più corrette. Eppure mi trovavo di fronte una signora di oltre settant’anni, e ne dimostrava anche di più per l’aria trasandata di chi poco si cura del proprio aspetto. Trovavo curiosa la sua dissertazione a proposito dei navigatori satellitari. Avendole spiegato come ero casualmente giunto fino a lei, iniziò a raccontare di quante volte essi sbagliano in precisione e di alcuni clienti che non erano riusciti a trovare il suo albergo nonostante fossero dotati del predetto strumento. Conosceva bene i limiti di quella tecnologia, la signora Olimpia.

* * * *

Il momento in cui si parlò della cena fu il più intrigante. Come fossi un nipote venuto a farle visita mi mise a tavola, con fare semplice ma nello steso tempo deciso. Ero nelle sue mani e ne ero felice, perchè mi faceva sentire a casa.

Tutto intorno era silenzio. Quando si allontanava piombavo in una dimensione temporale assurda. Credenze anni ’40, tavolini apparecchiati come avevo visto nei film in bianco/nero del dopoguerra, tovaglie bianche, piatti di coccio da trattoria, bicchieri da osteria. Ai muri finte stampe e piatti ornamentali; quelli si, veri. Le cose pulite e ordinate come si trovano a casa della nonna. Ero preso da emozione sincera. Ogni particolare della sala da pranzo lo osservavo come in un museo.

Il cane era quieto, non mi guardava più, con il lungo muso appoggiato alle zampe allungate. Se fossi stato a tavola con amici mi sarei sentito a disagio. Avremmo fatte chissà quante battute per sdrammatizzare. Invece ero felice di essere solo, nel silenzio rotto dal lontano tintinnare delle pentole là in fondo alla cucina.

Mangiavo e invitavo la signora Olimpia a raccontarmi qualcosa. Volevo sentirla parlare. Chiesi perciò della storia dell’albergo e come facesse a tirare avanti tutta sola. Iniziò così un racconto che avrebbe potuto essere una bella storia scritta. E non si sedette mai al tavolo, nonostante la invitassi, rimanendo a pochi passi da me, come fanno tutti i gestori con i loro clienti. Con dignità manteneva il suo ruolo, ma nel conversare, che son certo non le capitava di frequente, lasciava intendere l’ orgoglio di tenere in piedi la baracca. Nonostante la vedovanza precoce e un figlio da allevare.

Bevevo gustoso vino piemontese, che contribuiva non poco a farmi stare bene, cibandomi di pietanze caserecce saporite. Il brodo profumato che allagava il piatto degli agnolotti era un tuffo nei ricordi. L’odore del formaggio grana che si scioglie al contatto del piatto mi accarezzava da qualche parte. Una mano interiore sui ricordi dell’infanzia a casa di nonna Cleonice.

A dispetto del nome, dalle finestre del Bellavista lo sguardo non incontrava nulla di piacevole. Dalla finestra della camera osservavo il retro dell’edificio, quello che un tempo era una vasta terrazza prendisole. Mi intristiva il suo stato decrepito, ugualmente sentivo dentro una sorta di piacevole malinconia. Mi coricai sull’ altissimo letto a due piazze e il dondolio delle molle mi riportò nuovamente indietro. Avevo dormito per otto lunghissimi anni insieme alla nonna materna e non ho mai dimenticato l’effetto che produceva ogni suo movimento sulle reti elastiche del materasso. Appeso al soffitto il più classico dei lampadari a palla, sfere di vetro opaline che si trovavano anche nelle aule di scuola o negli uffici pubblici di un tempo. Per non parlare dei comodini, atti a contenere il pitale, molto usato dalla nonna. Non prendevo sonno. La storia di quei muri che mi racchiudevano riaffiorava nelle parole ascoltate poco prima.

Il Bellavista era nato per volontà del Podestà di Meana, noto avvocato del foro torinese, per ospitare in villeggiatura la ricca borghesia piemontese. Il padre di Olimpia, fornitore ufficiale della Real Casa, era stato indotto dallo stesso ad abbandonare l’attività per dargli una mano nella gestione dell’albergo. Per tentare una miglior sorte per se e la sua famiglia, nonostante fosse socialista, la sua fede politica non gli aveva impedito di mollare Torino per mettersi a lavorare per quel fascista. Profondendo spirito imprenditoriale e molto impegno, quindi, aveva fatto della villa, trasformata in albergo, una meta prestigiosa e reso Meana una nota località turistica. Tutto questo per diversi anni fino a quando aveva deciso di fare il salto di qualità rilevando l’attività.

Acquisire la proprietà significava liberarsi di un padrone che lo sfruttava e pagava poco, nonostante fosse l’artefice del successo del locale, e soprattutto prendere le distanze da un regime che ormai non tollerava più. Non sapeva con chi aveva a che fare. L’ avvocato-podestà pensò bene di redigere un contratto di vendita che conteneva una clausa. Esso sarebbe stato perfezionato in concomitanza con la firma del trattato di pace con la Francia.

Il regime fascista era entrato in guerra nel giugno del 1940 contro la Francia per seguire la Germania, fiducioso che nel giro di pochi mesi avrebbe ottenuto una schiacciante vittoria. Mussolini pensava così di sedere al tavolo di pace, insieme ad Hitler, contando su una guerra lampo che invece durò degli anni. E fu perduta. Con questa clausola capestro la vendita del Bellavista veniva posticipata di mese in mese, di anno in anno, lasciando la famiglia di Olimpia in balia di un becero strozzino che per vendere chiedeva sempre più denaro.

All’epoca di questi fatti Olimpia era una bambina. Lei e il fratello erano obbligati, come tutti, a partecipare alle adunate del sabato in perfetta tenuta da balilla. A dispetto di ciò era molto orgogliosa, soprattutto della gonna a pieghine, facendo infuriare il padre che, impotente alla ribellione, inghiottiva bocconi amari. Il giorno della caduta del fascismo fece un falò per bruciare le divise dei figli. Olimpia, disperata, sottrasse alle fiamme la sua preziosa gonna plissettata, la indossò e scappo per i campi inseguita dalla rabbia socialista. Ma la sua bella gonna era destinata a perire come aveva deciso il padre. Agganciò un rete e si lacerò irrimediabilmente.

Quella cena era durata un’eternità, tanto quanto la vita che mi era stata narrata.

La mattina successiva si preannunciava con altre emozioni. Il cielo era molto incerto, incombevano nuvoloni e sprazzi di sole. Alla luce del nuovo giorno il Bellavista, con tutto quello che avevo appreso, mi pareva migliore. Mentre la signora Olimpia mi preparava colazione ero sceso in giardino per sistemare il bagaglio. Il disordine era anche peggiore di come lo avevo distrattamente notato la sera prima, adesso ero interessato ad altro. Cercavo sul muro una cornice floreale emersa durante l’ultimo restauro. La trovai dove mi aveva detto. Era la prova della vita precedente all’albergo, una villa di una certa importanza, e trovare quel fregio era la conferma del lungo racconto serale.

Olimpia era uscita per avvisarmi della colazione pronta. Guardandomi scattare foto riprese la narrazione sulle origini del Bellavista e ancora mi sorpresi rapito ad scoltare quella sirena come Ulisse il navigatore. Questa volta non più di vicende umane ma di passione per l’arte, per l’architettura, per le segrete cose custodite dall’edificio. Tolse una chiave dalla tasca per aprire il portone, sempre chiuso, che, affacciato sulla via, immetteva nell’atrio originale della ex-villa. Rimaneva sempre chiuso perchè dava sulle scale che conducevano ai piani superiori e alle camere. Lo apriva per me in quell’occasione.

Che meraviglia il ferro battuto della ringhiera e il soffitto lassù, dipinto di azzurro come un cielo aperto. Un pregevole liberty di inizio secolo, con geometrica armonia, disegnava rampe non regolari, ma angolate, che salivano con effetto visivo particolarissimo. I miei occhi godevano di quel pezzetto di mondo che ormai non interessava più a nessuno. Chissà quando l’ultimo ospite aveva visto quello spettacolo. La domanda me l’ero già fatta, ma questa volta aveva un altro significato.

Alla fine la consideravo la casa di Olimpia. La casa che era il suo albergo, ormai per pochissimi e fortunati visitatori. Prima di andarmene, dopo aver saldato un conto modesto, mi aveva regalato una cartolina del Bellavista dei tempi migliori.

Partivo per il Passo del Moncenisio, il cielo nuvoleggiava ma non mi dispiaceva più di tanto. Il mio viaggio era comunque felice.

2 risposte a "Quella sera doveva accadere qualcosa di insolito"

  1. Piacevolissima lettura sulle medesime impressioni e poi mutate in piacevoli emozioni che ebbi anche io nel medesimo modo, in moto, solo, in cerca di alloggio prima di salire all’Assietta, fortuna mia il Bellavista era proprio lí, dove serviva.

    Olimpia, Nina per gli amici, è stata e sempre sarà parte dei miei pensieri piú belli, ho avuto modo negli anni di conoscerla affondo e di godere della sua piacevolissima compagnia.

    Grazie per avermi fatto rivivere quei momenti sereni al cospetto dei glicine del Bellavista….

    Gabriele Simonelli

    Piace a 1 persona

Lascia un commento