Sono soddisfazioni, eh.

Da adolescente ho molto invidiato i miei amici. Mentre a loro veniva facile rimorchiare le ragazze, io non battevo un chiodo. Timidezza e inesperienza. E in modo particolare la paura di un rifiuto. Solo a immaginarlo mi sarei scavato una fossa con le mie mani, per la vergogna. Un giorno due amici mi chiedono di fare il terzo perché altrimenti le tre ragazze, amiche che uscivano solo in gruppo, non ci stavano. Non avrebbero lasciata una di loro da sola. Quindi, fatte le coppie, ognuna si apparta. I miei “sodali” era da tempo che facevano avances a due di loro, e aspettavano solo l’occasione ma mancava il terzo. Eravamo giovani adolescenti con le smanie dell’età, ormoni a mille e tanta, tanta voglia di fare esperienze con l’altro sesso. Io, che manco avevo il coraggio di chiedere un appuntamento, non mi sembrava vero. Mi apparecchiavano la tresca senza che avessi mosso un dito. Come in effetti poi sarebbe accaduto. Due ore di chiacchiere oneste da bravo ragazzo educato. Fiorenza, ricordo ancora il nome, forse si aspettava qualcosa da raccontare poi alle amiche. Chissà che palle si sarà fatta la sfigata a cui ero toccato. Nei giorno successivi i baldi, ignari di come erano andate le cose, mi battevano le mani sulle spalle. “Con Fiorenza hai avuto successo, eh. Le sue amiche dicono che ti ha apprezzato..” Non capivo se lei non voleva raccontare la verità per non sfigurare o se davvero aveva apprezzato i miei soliloqui. Avevo parlato solo io. Forse era stata folgorata dalla mia parlantina.

Ci si incontrava, io e Fiorenza, e si parlava. Tutti e due appagati della nostra compostezza e del mio vago sapere. Forse colpita dal fatto che ero un cittadino e gli altri due un po’ bifolchi, di quelli che mettono subito le mani addosso e cercano la bocca. Ma quanto li invidiavo! Ero ancora in attesa di scoprire, in senso letterale, l’altro sesso e il momento, se si presentava, non sapevo coglierlo. Quando poi accadde, circa due anni dopo, fu una tragedia famigliare. La serata era stata allietata da canti e vino intorno al falò. Non era una spiaggia dell’Elba. Bensì una tendopoli dove gli sfollati per il terremoto condividevano con noi volontari un momento meno triste nelle sere estive.

Quel giorno io ero diventato importante per Claudia. Le avevo recuperato il diario personale tra le macerie della sua casa. Il soffitto, sprofondato sottostante, aveva lasciato uno stretto pertugio nel quale mi ero infilato strisciando come uno speleologo. Avevo trovato poco di quello che lei e la madre volevano recuperare, documenti, libretto di risparmio, catenine. Tra le mani mi era finito anche quel vecchio quaderno. La serata infine, bagnata con abbondante vino, stava mettendosi nel solco giusto. Mi chiede di dormire nella sua tenda e non provo nemmeno a rifiutare per la mia consueta ritrosia.

Siamo sotto le coperte, vicini come mai, l’alito pesante di vino e sigarette. Il buio e l’alcol mi danno il coraggio per allungare le mani tra le sue gambe quando, sul più bello, la madre accende la luce, tira via le coperte e ricopre di insulti la figlia. Resto congelato in quella imbarazzante azione che si era spinta fin sotto l’elastico. Ecco, ora sapevo cosa vuol dire scavarsi una buca per nascondersi. Senza aver raggiunto l’obiettivo e con la vergogna addosso, pesante come piombo, mi sfilo dalla branda appena torna l’oscurità. In apnea per non far rumore e con un segreto da celare all’ilarità generale.

Quando meno me lo sarei aspettato, ormai maggiorenne ma illibato, recupero le esperienze perdute con Cilla, una splendida ragazza sarda. Fino all’anno precedente ero un perdente. Ora vivevo una delle avventure più eccitanti che mi fossero mai capitate. Ero l’amante dell’amante. Ecco in breve la storia peccaminosa.

Estate. Un paese della Liguria che mi offre l’opportunità di fare una stagione come cameriere, senza avere esperienze precedenti, in un albergo insieme a tanti giovani. Molti di loro si conoscono già, provengono da luoghi diversi e si rivedono ogni anno per la stagione estiva. Ho tutto da imparare. Da chiunque abbia già praticato la professione, sia vecchi che giovani. Sono una matricola che fa un po’ pena, al comando dell’ultimo arrivato, ma ci metto impegno e simpatia. Non mi riesce mai difficile questo compito. Quello che temo è fare brutte figure, non solo con i clienti del ristorante ma con quelli della cucina. Dallo chef all’aiuto cuoca sono tutti nervosi e indaffaratissimi in quelle due ore in cui si concentra il loro massimo impegno. I camerieri portano le comande in cucina, ognuno ha un numero fisso di tavoli da servire, e aspetta impaziente le portate allungate dal pass per servirle in sala. Se sbagli e riporti indietro qualcosa sono cavoli amarissimi. Non ti perdona nessun chef e i colleghi ti guardano con sufficienza.

Tutto lo staff dei camerieri era flessibile. Il proprietario/chef gestiva due alberghi e muoveva il personale in base a criteri suoi. Stare ai suoi ordini era pericoloso, in caso di incompetenza. E non me ne mancava. Tremavo dalla tensione che sapeva creare in quei momenti. Era capace di tirati dietro qualche oggetto o peggio ancora, se riportavo indietro una comanda, di lasciarti in attesa. Ai tuoi tavoli non arrivava più nulla e io non sapevo come rientrare nella sala. Mentre gli altri camerieri, spigliati, veloci, simpatici mentre servivano i clienti stranieri, si facevano mance e amicizie. Una gavetta feroce.

Il secondo albergo era più tranquillo. Lo chef era un giovane veneto che faceva le stagioni da tempo, con la famiglia al seguito. Lui e Cilla, aiuto cuoca, erano una coppia molto affiatata. Comunque anche lui, sempre con atteggiamenti militareschi nei confronti del personale di sala, non scherzava. Cilla, donna d’animo più calmo, sapeva tenerlo a freno se si esibiva troppo con alzate nei nostri confronti. Mi lanciava occhiate di complicità, come a dire non ti scoraggiare. Quando ero di servizio in quell’albergo ero più rilassato. Mi godevo anche le mie prime soddisfazione perché stavo cominciando ad apprezzare il mestiere. Molti tavoli erano occupati da giovani straniere in vacanza da noi, vogliose di fare amicizie, e con qualche sicurezza in più, pure io mi davo da fare.

Come al solito io brillavo in conversazione, gli altri nel maneggio. Ma era comunque una piacevole serata se portavo a ballare in discoteca qualche olandesina dopo cena. Usciva un’allegra brigata composta dal personale e dai clienti che accettavano la nostra amicizia. Quell’estate impazzava la hit del momento di Umberto Tozzi. Un ballabile lento che nessuno voleva perdere e io, discreto ballerino, invitavo molte ragazze. Anche Cilla, con cui esisteva già un’intesa sul lavoro, non mi negava un giro. E così, vicini, allacciati, ci scambiavamo carinerie e confidenze. Mi sentiva tranquillizzante, senza secondi fini. La cosa finì sotto lo sguardo del suo chef e lei mi fece intendere che non dovevo insistere.

Pure i camerieri mi avevano messo sull’avviso. Tra loro due c’era un legame profondo, nonostante una moglie e una figlia appena nata. Tutti erano a conoscenza che Cilla lo aiutava psicologicamente, sul lavoro e nella vita. Una crisi depressiva che lei sapeva curare standogli accanto da alcune stagioni. Tutti tutelavano questa coppia e non avevano nessun interesse che uno chef si ingelosisse. L’avrebbero pagata un po’ tutti. Io frenavo, ma tra me e Cilla restavano le occhiate languide e i sorrisi malcelati durante il servizio. Sentivo di piacerle e per una volta questa certezza mi dava il coraggio per insistere.

I balli in discoteca finivano e ad una certa ora, già abbastanza tardi, rientravamo in albergo. Io la trattenevo con una scusa e così continuavano le nostre tenere conversazioni. Era bello sentirmi sicuro.

.continua

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