Una Fiat 500L bianca con il tettuccio apribile in tela nera, targata FI, è stata il mio primo finanziamento in banca. Un passo verso la libertà di movimento e uno verso uno sciagurato indebitamento. Essendo la prima automobile, era usata, molto, e da neofita del volante, io mi sono fatto le ossa e a lei la pelle. In pochi mesi ben due cozzi frontali. Il primo rimediato con l’assicurazione e un testimone di favore, ma con l’auto ferma dal carrozziere, in attesa della perizia, per un secolo. Il secondo stampando la sagoma sulla corteccia di un platano per un colpo di sonno. Inevitabile la rottamazione del veicolo ma non del debito. Nemmeno dopo un anno dall’acquisto mi sono trovato senza un mezzo per muovermi e soprattutto senza il mezzo per finire di pagarlo. Il prestito era finanziato dal lavoro stagionale, finito quello non avevo messo da parte né i soldi delle rate né quelli per aggiustare i danni da platano.
Essendo un’ auto vecchia poteva accaderle di tutto. Il fatto che fosse nelle mie mani, inguaribile ottimista incosciente, doveva al contrario essere pronta a qualsiasi cosa. Guadare un torrente, fare il testacoda sulla neve tirando il freno a mano, caricare la nonna di un quintale e portarla a far provviste per il negozio, accompagnare tutte le amiche che potevano entrarci e finire la benzina, restare a piedi in autostrada sotto una nevicata con il tettuccio aperto dal quale sporgevano gli sci (!!), guidare nella nebbia con la testa fuori perchè il parabrezza non sbrinava, tenere le catene da neve interrottamente per due mesi perchè erano tutt’uno con le ruote sperando in copiose nevicate. Però è stata pure un’alcova. Lo spazio angusto impediva libertà nei movimenti ma alla fine quello che contava c’era e la nottata trascorreva fino all’alba. Forse la cosa più tremenda era dormire inscatolati senza un attimo di requie, alla ricerca della posizione migliore.
Il giorno che il platano si era intromesso nei miei affari, lasciandomi ferito nel fisico e nel portafoglio, venne in mio aiuto un onest’uomo. Così, in cambio della 500 semi distrutta, mi ero trovato sotto il sedere un rottame viaggiante, marrone chiaro, dal nome Fiat 850. Non mi aveva chiesto nemmeno il passaggio di proprietà, tanto era certo della poca longevità del mezzo. Mi era parso fin dall’inizio che chi ci guadagnava era lui. Un carrozziere che avrebbe messo a posto la 500, che io non potevo permettermi, e l’avrebbe poi rivenduta. Avevo però un’automobile grande il doppio e non avevo fatto altri debiti. Un giorno, comunque, venni richiamato dalla banca per finire di saldare il vecchio debito. Avevo sperato, andandomene, di essere stato dimenticato ma, ahimè, mi avevano fatto chiamare da una zia. Mise lei una mano al portafoglio, per non fare brutta figura.
La nuova 850 era molto aerodinamica nel senso che l’aria, quindi anche l’acqua, entravano ed uscivano a piacimento. Alcune spore di grano germogliarono come in una serra e steli verdi facevano capolino, tra lo schienale e il sedile posteriore, che erano l’attrazione della mia auto. Io, sempre in vena di grandezze, insieme a tre ragazze, eravamo decisi a recarci in Trentino per la raccolta delle mele. Ci accomunava tanto il problema dei soldi. Sacchi a pelo per dormire all’addiaccio e taniche d’acqua per la 850 che ne consumava più della benzina. Fosse stato solo il buco nel radiatore pazienza. Nel viaggio ci lasciò anche la pompa dei freni e solo il sapiente e calibrato uso del freno a mano ci permetteva di andare avanti. Dovevo anticipare di molti metri l’arresto agli incroci, agendo con brevi tirate che inevitabilmente bloccavano solo le ruote posteriori. L’auto si intraversava e la ripartenza metteva in serio imbarazzo chi ci seguiva. In un viottolo di campagna questo inconveniente, durante una retromarcia, mi aveva fatto scivolare in una piccola scarpata. L’850, quasi in verticale, puntava i fari verso il cielo come le fotoelettriche della contraerea, in attesa che il fattore che ci ospitava la rimettesse in carreggiata con l’aiuto del trattore.
Erano anni bui, quelli di piombo, come li avrebbero definiti, e girare di notte si incappava in frequenti posti di blocco. Il mio arrivo era largamente anticipato dal cupo rumore della marmitta rotta tenuta insieme da filo di ferro. Ogni notte era la medesima storia. Un buon quarto d’ora a spiegare perchè non ero il proprietario, mentre controllavano i documenti via radio, e avveniva un’accurata ispezione del bagagliaio. Qui si apriva un capitolo a parte. Esso conteneva di tutto. Mescolati alla rifusa e arrugginiti vecchi attrezzi da officina, cric, catene da neve, pezzi rotti dell’auto e vari cavi di metallo. Questi altri non erano che il cavo d’acciaio che collegava il motore al contakilometri che cambiavo assai spesso per necessità. Mettevo 10mila lire di benzina e segnavo a penna i km. Sapevo di avere un’autonomia di 100. Non potevo tenere rotto il contakilometri e avevo una buona scorta di ricambi. I militari mi squadravano perplessi. C’era una nota nel mio congedo militare che mi segnalava come simpatizzante di estrema sinistra poichè leggevo Lotta Continua. Il rito però doveva compiersi. I miei 15 minuti di gloria erano inevitabili nell’attesa del via libera. Ero incensurato.
Era arrivato il momento di riportarla a chi me l’aveva data in prestito. Tra l’altro il libretto di circolazione era illeggibile e correvo il rischio, ogni volta che mi fermavano, del sequestro. A sostituire la 850 era giunta la mia prima auto straniera: una Renault 6 con cambio a cloche. Una novità che accompagnava un’automobile più moderna delle precedenti. Motore anteriore e il portellone posteriore che permetteva di caricare tanta legna. Era un piccolo ed efficiente furgoncino. Tanto era pratica nell’uso che non tenevo montati i sedili posteriori. La sua storia è strettamente legata ad un fatto triste. Avevamo adottato un cucciolo di cane meticcio. Pino lo avevamo battezzato. Era sempre con noi quando si andava per boschi a far provvista per il camino. Un simpatico incrocio tra un cocker e chissà cosa. Saliva sul pianale della Renault 6 e si divertiva a mordicchiare pezzi di legno. Quando parcheggiavo, lasciando aperto il portellone, non mi preoccupavo se rimaneva a bordo o mi seguiva. Così saltò giù e attraversò la strada mentre proveniva un veicolo che lo prese in pieno. In pochi istanti si era formato un vistoso ematoma sulla testa. La sua agonia, ed il nostro strazio, durò due giorni. Quando si prese la decisione di terminare quelle sofferenze lo adagiai nel bagagliaio, il suo luogo preferito di gioco, per portarlo dal veterinario. Non fu necessario perchè morì in quell’istante. Restava il compito più penoso. Trovai un luogo appartato nella macchia e lì feci la tomba con il cuore che mi sanguinava. Non ho mai più avuto un cane.
La Renault 6 si era stufata di fare il camioncino ed un bel momento, dopo quintali di caricate, si era azzoppata. Una sospensione aveva trapassato il pianale indebolito e l’auto procedeva inclinata di lato. Uno spettacolo deprimente che peggiorava il già triste ricordo di Pino. In questo frangente ci fu il salto di qualità. Un parente che cambiava l’automobile ci permetteva di accedere ad un livello superiore, insperato fino a quel momento. Una Citroen GS a metano, accessoriata di radio stereo e mangianastri ed un comfort di guida fantastico. L’auto si sollevava, al momento dell’accensione, con un sistema idraulico che rendeva il viaggio piacevole anche su strade sconnesse. Poltrone imbottite di tessuto, spazio per mettere carrozzina e passeggino, insonorizzazione e motore potente. Per noi era un’auto di lusso, anche se non lo era. E non era nemmeno nelle mie abitudini trattare con cura le automobili, avendole usate spesso per scopi assai poco turistici. In men che non si dica la GS, da gialla in origine, era diventata bicolore, gialla e bianca. Le portiere bombate, una alla volta, quando per uno spigolo, quando per un cancello, erano state sostituite perchè andare in carrozzeria era fuori discussione. Ero un abituè degli sfasciacarrozze. Un pezzo alla volta sostituivo quando un faro, quando una ruota e financo gli interni. Facevo tutto con le mie mani. Smontavo e rimontavo quasi ogni pezzo prelevato dagli sfasciacarrozze. Uno di questi, contrattando sul prezzo di due portiere, mi aveva chiesto una cifra, a mio parere, esagerata. Così decisi per un esproprio proletario durante la domenica. Una l’avevo pagata e l’altra mi aspettava. In pochi mesi, tra carichi di legna, sacchi del carbone, tavole per il mio laboratorio di falegnameria e pure la cacca ed il vomito del bambino, era ridotta in uno stato pietoso. Il parente, che l’aveva mantenuta in uno stato perfetto, non si capacitava. Un anno dopo non la riconosceva più come la sua ex. Con la GS era incominciati i viaggi lunghi perchè il metano costava poco e le mete erano amici che ci ospitavano. Una sploverata dai trucioli e dalla polvere del carbone e la Citroen, gialla con le portiere bianche, poteva mostrare la sua unicità al mondo intero. Ne ero orgoglioso perchè nessun meccanico era stato pagato.