1973

 

Per quello che sarebbe accaduto 10 mesi dopo c’erano già tutte le premesse. All’inizio di quell’anno frequentavo la prima classe del liceo scientifico a Sesto San Giovanni. La mia scelta era stata condizionata; una buona parte dei miei compagni di terza media si era iscritta lì. Erano gli stessi del mio quartiere, abitavamo i nuovi palazzi costruiti quasi contemporaneamente negli anni ’60 e ci si frequentava anche dopo le lezioni. Un bel gruppo affiatato. Non me ne sarei separato, a discapito di un corso di studi che, per quanto mi riguardava, si era rivelato particolarmente ostico.

Le amicizie avevano determinato scelte che erano irragionevoli. Ma il clima di benessere e reciproca fratellanza mi aveva convinto a seguire il gruppo. Un gruppo misto di ragazzi e ragazze che ogni mattina si ricomponeva sull’autobus che in poche fermate ci raccoglieva tutti. Anche questa era una bella novità, abituati a essere divisi in classi separate. Non ero a mio agio, se si trattava di invitare qualche compagno a casa, ma stavo molto bene quando accadeva il contrario.

Erano famiglie benestanti e trovavo davvero interessanti le cose che vedevo in quelle camerette. Libri di avventure, strumenti musicali, poster alle pareti e modellini di aerei o navi. Giochi che io non potevo avere, perchè costosi, ma che potevo toccare in quei momenti. Nonostante alcuni coetanei mi chiamassero a condividere dei bei pomeriggi a casa loro, esistevano sempre cose, però, dalle quali ero escluso. I corsi in piscina, ad esempio, o le lezioni di musica, di chitarra soprattutto. Allo shopping in centro a Milano, poi, nemmeno a pensarci.

Sull’abbigliamento mio e di mia sorella c’era un’attenzione, da parte di mia madre, che ci faceva sentire a disagio. Dozzinali e fuorimoda. Non si preoccupava che del suo guardaroba. Quando gli altri indossavano già da tempo jeans, io avevo ancora ridicoli calzoni corti con i bottoncini. Cappotti stazzonati invece dei pratici eskimo con la fodera interna staccabile. Scarpe di cuoio coi tacchi di legno invece dei mocassini scamoscati all’inglese con suole di gomma. Era molto imbarazzante e motivo di contestazione. La risposta era sempre identica, ci saremmo vestiti come volevamo noi quando avremmo guadagnato.

Una cosa in particolare mi faceva soffrire più di ogni altra. La mancanza di ospitalità di mia madre nei confronti dei nostri amici. Oltre a non poter girare liberamente per la casa, per evitare di sporcare, era razionata pure la merenda. Una scatola di biscotti da dividere, magari in quattro, era tutto quello che metteva sul tavolo. Mi vergognavo al pensiero di quello che gli altri mi avevano offerto. Quindi, in occasione dei compleanni, e prima o poi toccava a tutti organizzare la festicciola casalinga, speravo che si dimenticassero del mio. Altrimenti mi toccava giustificarmi con immenso fastidio.

Era divenuto chiaro a molti miei compagni che la mia famiglia non era né disponibile né generosa. Piano piano avevo cominciato a lamentarmi, con qualcuno dei più fidati, dei genitori che mi erano toccati in sorte senza più provare vergogna. Prendevo le distanze e così ottenevo due cose: scaricavo su di loro un po’ di colpe e raccoglievo della solidarietà. E non solamente dai miei compagni, anche dalle loro madri, più accorte e sensibili. Ad alcune di loro in particolare non era sfuggita questa mia presa di posizione. E ascoltavano le mie lamentele mostrandomi comprensione ed un’ umanità che mi accarezzava interiormente. Quelle madri, segretamente, le facevo un poco mie autoadottandomi.

Gli inviti a fermarmi a cena, dopo un pomeriggio passato coi figli, era nel tempo diventata una prassi. E durante le cene, attorno al tavolo con tutta la famiglia riunita, approfittavo per raccontare della mia vita. Il desiderio di ritornare dalla nonna Cleonice, che mi aveva cresciuto per otto anni, era l’argomento che più inteneriva o scandalizzava. Contribuiva a spiegare la distanza che era venuta a crearsi tra me e i miei genitori. E trovavo una sponda alla quale appoggiarmi. Così alcune di quelle madri avevano cominciato ad avere un occhio di riguardo per la mia condizione. Di pari passo si facevano un giudizio negativo dei miei e questo poteva diventare pericoloso per la mia situazione.

Avevo trovato degli appoggi esterni che fraternizzavano con me. Questo mi dava una forza maggiore nell’affrontare le discussioni famigliari. Il tono era alto ed ero arrogante nelle risposte. Loro, i miei genitori, non sapevano che li avevo messi in una cattiva luce e probabilmente non gliene interessava più di tanto. In fondo si trattava di due o tre madri al massimo che stavano dalla mia parte. Però questo bastava per non farmi sentire solo. Sapevo che mi capivano, ed erano adulti; avevano un peso ben diverso dalla solidarietà dei coetanei.

Tutto era partito da una confessione fattami da mia madre. Aveva litigato con mio padre in maniera più drammatica del solito, quella volta aveva creduto di trovare la forza per andarsene. Una fuga finita dopo poche ore e che richiedeva una spiegazione a noi figli, dopo averci trascinati sul treno in preda al disorientamento più completo. La confessione era destinata solo a me, il maggiore dei tre. Il suo matrimonio era in crisi, aveva raccontato in un angolo appartato della stazione, perchè nè io nè mia sorella eravamo figli di nostro padre. La loro conoscenza e poi il fidanzamento erano avvenuti lontani dalla nostra presenza. Eravamo stati affidati altrove, dopo la nascita, per questa ragione lui non sapeva niente della nostra esistenza. Solo in un momento successivo, in prossimità del matrimonio, lei aveva rivelato la cosa. La condizione che chiedeva era il nostro riconoscimento. Con il tempo, questo fatto si era ritorto contro di lei con continui rinfacciamenti. A peggiorare la situazione c’ero io che non accettavo questo padre e litigavo con mia madre, accusandola di avermi strappato dalla nonna Cleonice.

Questa rivelazione non aveva fatto altro che indurirmi ancora di più. Erano peggiorati i nostri scontri, la tensione in famiglia era palpabile e tutto era motivo di discussioni. Non accettavo la pur minima osservazione e questo aveva alzato il livello dello scontro. A volte con schiaffi e punizioni. Adesso avevo anche un alibi perchè potevo dire che lui non era mio padre. E lui, dal canto suo, avendomi dato il cognome e mantenendomi economicamente, non accettava la mia ribellione. Un muro contro muro.

Quell’anno vivevo in una bolla. In casa mi isolavo e non volevo rapporti con nessuno.

(continua.1)

Un colpo di fortuna mi venne in aiuto. Una sorella di mia madre era venuta ad abitare non molto lontano da noi ed io, conoscendo il passato burrascoso tra loro due, ne avevo subito approfittato. Mi fermavo spesso da lei e mi confidavo abbastanza al punto che era stato inevitabile tirare fuori l’argomento scottante. Mio padre. Quell’argomento era il terreno giusto; all’epoca di quei fatti risalivano, per l’appunto, gli scontri più feroci. Ma la mia nascita era stata solo la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Da tempo non correva buon sangue tra le sorelle, due caratteri forti e indipendenti. Epica era stata la lite avvenuta a Londra dove, insieme, lavoravano presso una famiglia. Da questo fatto era scaturito il suo rientro in Italia, precisamente a Roma, dove mia madre avrebbe in seguito incontrato mio padre, quello biologico. Molti anni dopo quei fatti, tuttavia, non era stato difficile rinfocolare quell’astio che covava come brace sotto la cenere.

Mi era chiaro che avevo dalla mia parte un pezzo della famiglia, quella in cui mi riconoscevo, in quanto questa zia manteneva stretti rapporti con la nonna e le altre sorelle. Era un aggancio con il luogo più ambito e desiderato, quello della fanciullezza. In verità in quegli ultimi anni era avvenuto un riavvicinamento tra le sorelle. Un tentativo di superare il conflitto e che avrebbe dovuto facilitare, nel futuro, un riappacificamento tra mia madre e la sua famiglia di origine. Soffiare sul fuoco del rancore, con tutti i precedenti, era un gioco facile e pieno di aspettative al quale non mi ero sottratto. Avevo solo poche armi in quella guerra e sapevo sfruttare le occasioni a mio favore. Potevo lamentarmi dei pessimi rapporti con mio padre, ma anche del cibo o dell’abbigliamento che ci era destinato. Sottoporre un elenco di situazioni che mi mettevano a disagio, a partire dai compagni di scuola, fino al fatto che mi era negata la possibilità di trascorrere le vacanze estive al paesello sospirato.

L’unica estate nella quale mi era stato permesso, seppur per un breve periodo, di tornare a vivere con la nonna si era trasformato in una tragedia. Non volevo assolutamente tornare con i miei. Aver riassaporato quell’aria di famiglia che ben conoscevo, ritrovato i luoghi che mi erano famigliari e il dolore che provavo al pensiero di tornare a Milano erano stati determinanti. Il giorno che erano venuti a riprendermi mi ero rifiutato di seguirli. Ne era nata una animata discussione tra loro e i miei parenti, che avevano preso le mie difese. L’ennesima benzina sul fuoco dei vecchi dissidi mai sopiti. Da quella volta non si poteva più tornare al paese. Era tabù

Proseguivano nel frattempo le lezioni del liceo. Eccitanti esperienze che, nonostante un basso profitto scolastico, mi tenevano fuori casa e lontano dalle tensioni. Il gruppo storico degli amici si muoveva all’unisono. Dove potevo seguirli ero presente. Se era un pomeriggio a girovagare per Milano non avevo alcuna difficoltà, se si trattava, invece, di restare fuori la sera per una pizza era un gran brutto affare. Tutti erano disposti a prestarmi il denaro ma non avrei mai potuto renderlo. Erano troppo tesi i rapporti in famiglia. E qualche volta era pure accaduto che, intuendo la mia difficoltà e le mie reticenze, mi era stata offerta la pizza. Ad imbarazzo si sommava imbarazzo.

Un bel gruppo affiatato e unito con il quale le avventure non erano mancate.

Avevo una grande passione per la lettura, condivisa con Luca, uno dei compagni che spesso mi ospitava. Un pomeriggio, nel condominio dove abitava la professoressa che prestava libri a noi studenti, in attesa del suo rientro avevamo esplorato il sottotetto. Un luogo buio e fatto di bassi cunicoli che ci era parsa un’ interessante esplorazione. Per illuminare i nostri passi a carponi e le inevitabili capocciate al soffitto si era accesa un pò di cartaccia a mo’ di fiaccola. Il fumo sprigionato, senza sfoghi verso l’esterno, aveva invaso il sottotetto e poi era sceso verso l’appartamento. La conseguente crisi respiratoria e il fuoco che si era propagato aveva generato un panico pazzesco. La nostra fortuna era stata la scarsità di ossigeno che aveva spento le fiamme. E soprattutto che nessuno era stato testimone del fatto.

Una gita in bicicletta ad Erba, iniziata un sabato pomeriggio per caso, si era protratta oltre l’orario. Avevamo raggiunto la casa di campagna di un nostro compagno e, fattasi sera, ci avevano ospitato per la notte. I genitori, ignari della gita e poi avvertiti per telefono, non si erano molto rallegrati al saperci così lontani da casa. Dopo vivaci discussioni avevano dovuto far buon viso a cattivo gioco; comunque eravamo in compagnia di adulti. Io non sapevo che pesci pigliare. Avevo seguito il gruppo senza rendermi conto delle conseguenze. Per rinviare l’inevitabile il più in là possibile, avevo fatto avvisare evitando di farlo direttamente. Non avrei retto la discussione per telefono di fronte a tanti testimoni.

Ne era seguita una serata fantastica. Soli, in giro fino a notte fonda tra schiamazzi e regole infrante. Un film a luci rossi era stato l’apice di quella gita non programmata. Ma dietro l’angolo c’era la punizione ad attenderci. Ci eravamo rimessi in bicicletta, sulla strada del ritorno, dopo una notte passata in bianco. Il chiasso fatto aveva perfino allarmato il padre del nostro compagno che, destatosi nel cuore della notte, ci aveva fatto una lavata di capo. Eravamo partiti mezzi assonnati e poco lucidi . Il gruppo pedalava unito e distratto. Ondeggiando avevo fatto perdere l’equilibrio a Luca che era caduto rovinosamente a terra. Una brutta botta al ginocchio con conseguenze serie. Menisco rotto con intervento chirurgico. Ma anche a me non era andata meglio.

C’era una seria ipoteca nel mio futuro: un collegio dove allontanarmi definitivamente dalla famiglia.

(continua.2)

La madre di Luca era un’assistente sociale, conosceva bene il disagio famigliare per professione. Non avrebbe mai permesso che da quel fatto ne scaturisse un danno. Oltretutto anche mia sorella manteneva dei buoni rapporti di amicizia con la sorella di Luca in quanto compagna di classe. La frequentazione di questa famiglia era assidua e preziosa anche per lei.

Ero totalmente preso dalla mia situazione, arrabbiato e rancoroso. Non tenevo in conto che anche mia sorella potesse soffrire di quel clima. Avevo la stessa non-relazione anche con l’inconsapevole fratellino, arrivato per ultimo a cementare il loro complicato matrimonio. Volevo solo pensare a me stesso, a come sopravvivere nell’attesa di ritornare a Collagna. D’altronde quella era stata la mia esperienza, non condivisa con loro. Noi fratelli ci avevano fatto incontrare quando eravamo già grandicelli. Mi sentivo veramente solo. Ma questo non accadeva quando ero nelle famiglie altrui. Ne sentivo immediatamente il calore e il clima rilassato, cose sconosciute. E Franca, madre di Luca, lo aveva capito molto bene.

Poteva accadere che in casa rimanessimo noi tre soli. Ed era una festa. Liberi di fare quel che ci piaceva almeno per qualche ora. Ma la presenza del più piccolo rovinava tutto. Era un peso insopportabile, per la sua età e perchè mi obbligava a doveri, mal digeriti, nei suoi confronti. Quindi più un ingombro che un fratello. Allora diventava un gioco farlo arrabbiare o trattarlo con scarso riguardo. Come la sera che, i miei erano usciti, lo avevo legato con le cravatte come un salame dentro al letto. Non voleva dormire e non ci lasciava in pace. Lo avevo lasciato così e mi ero completamente dimenticato di lui quando ero andato a dormire, ma me lo fece ricordare un ceffone quando rientrarono. Poi c’era stata la folle discesa sul passeggino, mollato all’inizio della rampa che portava ai garage condominiali. Un divertimento che gli piaceva se tutto filava liscio. Il volo gli aveva procurato un bel taglio sulla fronte e castighi per me. Tranne nell’occasione che, persolo di vista, si era infilato sotto il letto matrimoniale con alcol e fiammiferi e aveva appiccato il fuoco al materasso. Il mio intervento aveva scongiurato una tragedia ben peggiore della mia distrazione.

La vita all’interno delle quattro mura era regolata più da norme che da concessioni. Non si poteva mangiare quello che c’era nel frigorifero senza permesso. Il pane era obbligatorio mangiarlo durante i pasti perchè riempiva la pancia. Le porzioni delle pietanze erano stabilite da mia madre che, essendo attentissima al risparmio, le centellinava. Gli avanzi erano conservati per i pasti successivi. Non buttava via mai nulla. Del resto, affermava, avendo patito la fame durante la guerra, non c’era motivo di esagerare con il cibo. Tirchia al punto da farsi dare da un mendicante il resto di 100 lire perché voleva lasciargliene solo 50.

Aveva sacrificato una cameretta, nonostante fossimo in tre fratelli, per avere un soggiorno grande metà dell’appartamento. Questo obbligava due di noi a dividerci una cameretta, che oltre a due lettini non conteneva nient’altro, e la sorella ad utilizzare un divano letto del soggiorno. Il che equivaleva a non avere una propria camera. Quasi come fosse un ospite. In pratica vivevamo in cucina. Per studiare, per giocare, per ricevere i compagni. L’unico posto consentito. E quell’enorme soggiorno, che era il fiore all’occhiello della casa, era vietato perchè avremmo sporcato e fatto disordine.

Le vacanze estive corrispondevano ad un lungo soggiorno in campeggio, per ragioni economiche, ma questa condizione per noi ragazzi era la migliore in assoluto. Molta più libertà di movimento e molte meno regole rispetto alla vita in appartamento. Sbrigate le poche incombenze assegnate, come lavare i piatti e fare la spesa, c’erano spazi infiniti da sfruttare. E soprattutto molte amicizie nuove, favorite dalla vita all’aria aperta a contatto con altri campeggiatori.

Però non era mutata la mia modalità di approcciarmi agli adulti con i quali entravo in sintonia. Cercavo sempre la maniera di far sapere quanto stavo male e come mal sopportavo quella coppia di genitori. Così, raccontare le mie disgrazie esistenziali ad una signora, amica di mia madre, era stato un errore fatale. Ingenuo avevo pure rivelato che non era mio padre quello che lei credeva lo fosse. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare un vaso colmo oramai da parecchi mesi.

(continua.3)

Era stato deciso che a fine estate, prima dell’inizio del nuovo anno scolastico, sarei andato a vivere in un istituto di Lodi. C’era stata una visita preliminare dove mi erano state fatte vedere le strutture del collegio. Abbastanza vetusto e triste con i corridoi poco illuminati e le camerette che avevo guardato con aria afflitta. Non avevo alcun potere di modificare il mio futuro, quello sarebbe stato. Punto e basta. Chiedere di rivedere la decisione non aveva alcun senso perchè tutto quello che avevo da dire lo avevo già detto. Ed erano parole di totale disaffezione e distacco da loro. Solo questo rimaneva della mia relazione con la famiglia. E accettavo perciò l’inevitabile allontanamento.

Dovevano passare ancora alcuni giorni prima del mio viaggio verso Lodi e dentro di me montava risentimento e aggressività. Non avevo più nulla da perdere. Sentivo di poter sputare ancora del veleno. Un pomeriggio una discussione aspra con mia madre era degenerata fino al punto che, reagendo ad uno colpo ricevuto, le avevo mollato a mia volta una sberla. Non era mai accaduto prima e non ero mai giunto a questo tipo di reazione. Spaventato dalle conseguenze e per sottrarmi ero uscito sul pianerottolo e stavo sulle scale. Ero in ciabatte. Ero in trepida attesa che accadesse qualcosa al rientro di mio padre. Che alla fine, dopo un tempo che era sembrato non passare mai per l’angoscia che sentivo, era venuto a cercarmi. Inferocito per l’ennesima prova che avevo dato, ma anche per la pessima figura che gli stavo facendo fare con l’inquilino del nostro piano. Con l’aggravante che era anche un suo collega di lavoro.

Mi aveva afferrato con rabbia e mi ero divincolato, buttandomi a scendere le scale del condominio precipitosamente, e nella colluttazione ciabatte e occhiali da vista erano rimaste là. E la via di fuga rimasta, uscendo dal portone d’ingresso, era la strada che portava dalla sorella di mia madre. Unico porto sicuro in quel frangente inaspettato e carico di conseguenze negative. Correvo, per raggiungere il più in fretta possibile la sua casa, con la vista sfocata e scalzo, e con il timore che tutti si accorgessero di me. Mi sentivo nudo e sotto gli sguardi di quelli incrociavo. Correvo sulle traversine dei binari del tram, perché era un riferimento più visibile data la mia forte miopia, ma anche per non far notare che ero senza scarpe.

( continua.4 )

Gli zii erano stati coinvolti, loro malgrado, nella mia fuga. Non se l’aspettavano ma non era un fatto poi così sconvolgente, dopo i tanti discorsi fatti nei mesi precedenti. Erano solo maturati i tempi perchè io li portassi a prendere una posizione più chiara sulla questione. E sapevo che era tutta a mio favore. Erano quindi seguite una serie di telefonate per convincermi e convincerli che io dovevo rientrare. Ma la paura delle conseguenze e della destinazione al collegio erano state formidabili motivazioni che avrebbero convinto chiunque. Mi tenevano.

Da quel preciso momento ero diventato il miglior avvocato della mia causa. Anni di conflitti e inconciliabili relazioni, non solo tra me e i miei genitori ma anche tra loro due, erano materia di narrazioni che praticavo da sempre. Sapevo spiegarmi bene e conoscevo molti fatti circostanziati, e tra questi la mia adozione, che sortivano l’effetto desiderato. Farmi ascoltare con attenzione e suscitare benevolenza, nonostante fossi solo un quindicenne. Quando la questione del mio rientro in famiglia era diventata irrisolvibile con le sole telefonate, erano stati chiamati in causa i carabinieri per sottrazione di minore. Essi tuttavia, comprendendo il ginepraio nel quale si erano infilate le due sorelle, ostili da sempre, avevano rimesso la cosa nelle mani di un giudice del tribunale dei minorenni. Un giudice donna con la quale ero andato subito d’accordo. La pensava come me sul fatto che rifiutare i genitori e invocare la nonna, che mi aveva allevato diversi anni con amore, era comprensibile e accettabile come soluzione, anche se temporanea.

Questa era diventata la mediazione raggiunta, dopo l’intervento del giudice, tra la mia famiglia e i parenti che mi avevano ospitato dal giorno della fuga. Il liceo nel frattempo aveva riaperto le porte e la zia, quella che prendeva le decisioni importanti, mi aveva iscritto al secondo anno di sua iniziativa. In quel frangente i miei genitori si erano trovati contro pure la madre di Luca, l’assistente sociale. Era stato un vero e proprio autogol l’aver denunciato, per dimostrare che tipo fossi, un presunto furto di ciclomotore. Nelle realtà io e Luca avevamo solo rimesso in funzione un vecchio motorino, abbandonato incatenato, che stazionava da mesi nei pressi di casa sua. Lo utilizzavamo entrambi e rimaneva nel garage dei suoi genitori. I carabinieri quindi erano giunti fino a loro e la questione si era presta chiarita con la conseguenza che essi avevano speso parole positive nei miei confronti.

Un poco a malincuore, perché lasciare i compagni era un dispiacere, ero partito per Collagna. Ma pure molto soddisfatto del risultato raggiunto: non ero stato costretto a tornare dai miei e si era allontanato il pericolo di finire in collegio. La nonna era stata chiamata a Milano, dal giudice del tribunale dei minorenni, perché accettasse un affido temporaneo in attesa che si calmassero le acque. C’era troppo astio tra le due sorelle e restare con la zia non avrebbe permesso il ristabilirsi di buoni rapporti tra me e i genitori. Era ottobre, tornavo al paese dopo otto anni di assenza. E non era più la stessa cosa. Ad aspettarmi c’erano la nonna e le altre sorelle di mia madre.

(continua.5)

L’inverno dell’appennino, freddo e nevoso, era invece per me una primavera. Che fare di una raggiunta libertà in un paesino di qualche centinaio di anime, accoccolate tra le pendici dei monti Ventasso e Casarola? Ricordavo da bambino i giochi in piazza di fronte alla bottega, i passaggi dei pastori verso i pascoli lassù in cima, le passeggiate con le zie alla Fonte dei Porali, ma soprattutto la vita domestica accanto alla nonna. Da adolescente, senza la famiglia a limitarmi, gli spazi a disposizione erano allargati fino ai paesi più prossimi. Iscritto ad un nuovo liceo, ogni mattina scendevo per una ventina di kilometri a Castelnuovo. Ancora buio salivo sulla corriera che lenta scendeva a valle, spesso imbiancata. La vita sociale era quasi esclusivamente relegata dentro ai bar e i ragazzi, più o meno coetanei, potevo frequentarli soprattutto al liceo e nelle trasferte in corriera. Restava comunque, nei miei confronti, una certa indifferenza se non diffidenza, essendo venuto da fuori. Il pomeriggio poi filava via veloce, tra il rientro da scuola e il precoce tramonto montanaro. Tutti chiusi in casa. Non ero invogliato a studiare in quelle condizioni. Camminavo solitario per le viuzze ghiacciate e passavo da un parente all’altro per qualche piccola incombenza. Lunghissime conversazioni con Teresa, la zia più giovane, erano la routine quotidiana.

In casa della nonna non c’erano nè televisione nè radio. Zorro, il setter nero della figlia Adriana, era il compagno preferito dei miei vagabondaggi per i dintorni. A volte per prati innevati dove ci rotolavamo fino a bagnarmi completamente i vestiti. Poi qualcosa cambiò, per fortuna, perchè entrò nelle mie abitudini la frequentazione di Alessandro. Un grande appassionato di fantascienza che mi aprì gli interessi a quel genere di letteratura. Dopo un approfondito ammaestramento sulle scienze astronomiche, sui viaggi nello spazio, sulla filmografia e sugli autori di fantascienza, avevo trovato in casa sua una vera miniera di libri. La lettura di Asimov, Dick, Bradbury, Heinlein e altri, mi portava lontano dal paese, dalla negletta condizione di esule lanciandomi tra le stelle. Era accaduta la stessa cosa anni prima, allora in casa mia. Una piccola biblioteca famigliare era stata il soccorso, la bolla nella quale trovare rifugio dalle infelici giornate. Leggere per evadere, entrando nella testa e nei pensieri del protagonista. E lontano dai libri, poi, continuare per la strada e sui banchi di scuola a sentirmi qualcun altro. Ero presente in carne ed ossa ma non ero mai veramente presente con la mente. E le distrazioni recavano con se guai con mia madre. Dimenticavo cosa acquistare, facevo cadere a terra litri di latte e bottiglie di olio ed ero terrorizzato da tutto questo perché ne ero consapevole.

(epilogo)

 

Rientro nell’arena reggendo il gladio con la mia fidata mano destra.

Lo scudo è pesante. Il braccio sinistro, provato da lunghi combattimenti, non lo regge più con forza.

La protezione non è più quella di un tempo.

Non è cambiato il portamento. Alto e fiero. Bastasse già quello a intimorire.

Gli avversari si guardano negli occhi.

La prima regola è tenere sempre alto lo sguardo. Chi crede che attraverso gli occhi si veda l’anima e ne teme la perdita, sfugge il mio e abbassa il volto. Io l’anima l’ho persa molto tempo fa. Non ho nulla da perdere.

L’anfiteatro è colmo di persone. Visi noti e meno noti. Ma tutti appartengono alla mia vita. In ogni viso leggo un’espressione interrogativa.

Perchè sei tornato, sembrano chiedersi. Non ti basta il numero di persone che hai uccise o ferite. Guardati intorno.

La terra sotto i miei stivali ha il color marrone del sangue rappreso. E corpi giacciono ovunque, abbandonati dalla vita. Mors tua vita mea, non lo sapevate ? Ipocriti.

Ebbene si. Ho dato la morte. Ferito tanto. Ma è ciò a cui mi hanno allenato.

Primum vivere.

Cosa ricordo di Cleonice. Un largo corpo che mi scaldava in un letto troppo stretto. Mani consumate che mi lavavano il giovanissimo corpo nella vasca in cucina. Il fazzoletto annodato sempre dietro la nuca. Nero. Come tutti i suoi vestiti. Cleonice ha messo al mondo sette figlie. Donne che saranno determinanti per il mio futuro. Ne incideranno segni indelebili. Quando l’unico uomo della famiglia stava morendo prematuramente, lasciando Cleonice vedova per altri 40 anni, io sgambettavo sul suo letto di morte, raccogliendone il testimone. Unico altro maschio di cui si sarebbe occupata.

Cleonice non è tra i cadaveri dell’arena.

E’ sua figlia che manca.

Sono rientrato per lei.

La donna che ha ingannato la mia vista, trasfigurandosi in mille altre donne.

Vittime predestinate al mio gladio.

Calpesto brandelli di vesti nuziali. Sangue e sperma rappreso. Sollevo un piede dalla polvere e sull’impronta luccica un anello.

Mi colpisce.

Ho fatto fondere il primo anello nuziale quando mi sono risposato. Da quell’oro ne sono venuti altri due più piccoli. Il secondo anello, a pochi giorni dal matrimonio, è misteriosamente sparito. Probabilmente perduto in mare durante un bagno estivo.

Non ne ho mai più voluti.

Sul mio corpo non indosso né anelli, né catene né quant’altro possa ancorarmi.

Strazio di corpi. Uomini ma soprattutto donne. Chi si è difeso troppo ha avuto la morte peggiore. Quella che non toglie la vita immediatamente, prolunga l’agonia per conoscere meglio il dolore. Sono stato addestrato bene.

Il sole picchia verticale. Il caldo mi ricorda uno sperduto nuraghe dove ho consumato una vendetta. Partorita la mia ribellione.

Tra l’odore dell’aglio selvatico l’ ho penetrata, senza ucciderla.

Ma anche stavolta mi ero confuso. Ora che giace nelle sue vere sembianze, mi accorgo che non era lei. Una vittima innocente, dirà qualcuno.

Lascio ad altri il compito di processare un gladiatore.

Cerco tra la folla, assiepata sulle gradinate, la causa della mia crudeltà.

So di averla vicina, ma mi sfugge camuffandosi nelle vesti più inverosimili. Una vecchia si lamenta per i dolori alla schiena. Una giovane mi mostra lunghe gambe nude abbronzate. Una sta china su un fascicolo di vecchie lettere. Quella che fuma e ha perso l’orecchino.

Si, dove ti ho incontrata nella mia esistenza?

P., al contrario, sapeva come sarebbe finita. Era una vittima sacrificale, cosciente di esserlo e dedita alla sofferenza.

Fratelli di sangue.

P. ci inciampo mentre attraverso un pezzo impazzito di vita. Un sadico gioco. Giace spezzata, sulla sabbia infuocata, con ancora una mezza smorfia sul viso. Se ne è andata come voleva, godendo.

Il braccio che sostiene il gladio pende inerme al mio fianco.