
Estate 1978. Era l’estate del mio disimpegno su diversi fronti. L’esame di maturità, in cui me l’ero cavata benino sciorinando riflessioni comunissime sull’unione europea, era stato preceduto, e poi seguito, da eventi importanti. I temi della politica erano monopolizzati da Marco Pannella. I suoi interventi provocatori mi erano noti perchè ne parlavano tutti. Era una figura che attirava le mie simpatie. Ma non abbastanza da interessarmi ai suoi referendum radicali. Il terremoto politico per il caso Aldo Moro era impossibile non incrociarlo. Ma sempre confinato ai margini dei miei interessi, come pure lo scandalo che coinvolgeva il presidente della repubblica. Ero arrivato a Collagna, il rifugio di sempre, che avevano già eletto Pertini e stavano eleggendo il nuovo papa.
Avevo la testa altrove. L’imminente partenza per Salerno, al CAR, catalizzava ogni mia emozione. Quell’estate era anticamera di aspettative, di incertezza ma pure di vera svolta. Dopo sei anni scanditi dagli anni del liceo, inframmezzati da estati fantastiche, ero in attesa di qualcosa di nuovo. E il servizio militare era un’opportunità. Qualcuno me lo faceva notare.
Il mese precedente la partenza, tutto agosto, avevo lavorato nell’ impresa di uno zio. Appalti per la costruzione di opere idrauliche lungo il fiume Secchia. Non ero abituato all’uso del badile e del piccone ma si trattava di qualche settimana. E qualche soldo racimolato. Come tutte le volte Collagna era una fonte di certezze. Dormivo dalla nonna, ormai anziana, ma io l’avevo sempre vista vecchia. Vestita di nero con l’onnipresente fazzoletto scuro annodato sulla nuca.
Un furgoncino wolkswagen, che aspettavo sulla strada, passava a prendermi presto al mattino. A bordo trovavo già un gruppo di operai del paese. Erano incuriositi da me, studente cittadino, che non parlavo in dialetto ed ero visibilmente ignorante di tutto. Del lavoro per il quale ero stato assunto come nipote dell’imprenditore. Era brava gente. Mi accettarono per quello che ero in grado di fare.
Manovrare il manico degli attrezzi era impegnativo. In pochi giorni mi erano cresciuti dei calli alle mani che mi costringevano ad usare i guanti da lavoro. Unico tra tutti loro. E la fatica era tanta. Per mia fortuna non mancavano le pause, la più lunga per la colazione. In questi momenti, i preferiti, ero oggetto di domande alle quali rispondevo con garbo e in modo esaustivo. Offrivo il meglio di me stesso ed entravo perciò in empatia con loro. A mia volta li interrogavo su tutto e chiedevo spiegazioni. E loro si sforzavano di parlare in italiano. Sebbene comprendessi il dialetto, che fin da piccino avevo ascoltato.
Per spostare il calcestruzzo, preparato con la betoniera, al luogo della gettata, si utilizzava il dumper. Una specie di carriolona a motore che inizialmente era guidata dal capocantiere. Mi sarebbe piaciuto portare quel mezzo e quindi, un po’ alla volta, mi avvicinavo al dumper. Prima per curiosità e poi offrendomi di sostituirlo durante una sua assenza, mi ero impadronito del mezzo. Gli ultimi giorni al cantiere lo guidavo, forse con poca perizia, ma con enorme gratificazione. Mi faceva sentire alla pari degli altri.
Stranamente, si. In maniera strana e assurda mi toccava tornare a Milano. Ritornare dai famigliari per il rito della partenza per la naja. Erano anni che non vivevo più con loro. Anni trascorsi in diversi luoghi delle vicinanze ma mai rientrato in casa. L’unica plausibile spiegazione, acconsentendo, era che mi sentivo forte abbastanza da sopportarlo. Non ci sarebbe stata una discussione, come sempre, ma, per una volta, un incontro senza conseguenze. Alla coppia di mancati genitori mi toccava dare la soddisfazione di accompagnare il figlio al treno. E lasciavo che il rito si compisse. Poi sarei partito lontanissimo.
La Stazione Centrale di Milano era il luogo topico di molte mie vicende personali. In questa stazione si rifugiava mia madre quando voleva scappare. Ma una volta uscita di casa, con noi figli al seguito, lì si fermava la sua fuga. Noi stavamo in attesa di un treno su cui non si saliva mai. Seduti su qualche panchina fintantochè nostra madre, allontanatasi in cerca di appoggio di qualcuno a noi sconosciuto, decideva di tornare indietro. Era accaduto durante una di queste finte fughe che avevo appreso la verità. Camminando lungo la banchina a lato dei binari, una metafora perfetta della situazione dalla quale non poteva uscire, aveva confessato il motivo dei continui litigi. Non ero figlio di mio padre, nè io nè mia sorella. Ci aveva riconosciuto e dato il suo cognome dopo il matrimonio.
Non mi ero chiesto perchè, ad otto anni compiuti, fossi stato catapultato in un posto che avevo fatto fatica ad accettare. Nello stesso modo con il quale avevo dovuto accettare un padre, fino a quel momento ignoto, una casa nuova e parenti nuovi. Una famiglia creata dal nulla e che aveva fragili fondamenta. E si sbriciolava con il passare del tempo. Non me lo ero chiesto perchè gli adulti avevano deciso così. Ma dentro di me covava il desiderio isopprimibile di tornare dalla nonna.
Anni di pianti repressi, di lettere nascoste e di ribellioni alle regole imposte da genitori non riconosciuti. Anzi, non amati. E il treno era stato il mezzo per scappare da quell’inferno. A quattordici anni, finalmente, ci ero salito, portandomi dietro la sorella.
Poi altre volte. Non per fuggire ma per tornare. Con il groppo alla gola e le mani in tasca. Un peregrinare triste e solitario con il mezzo più disponibile e a buon mercato. Viaggi nei quali avevo ricevuto proposte irricevibili da donne disinibite o avevo subito il furto degli occhiali da vista, per me indispensabili. Viaggi senza soldi per mangiare o, in alternativa, in autostop per comperare un panino e un caffè. Il treno quasi come una seconda casa, tanto mi era famigliare quel disgustoso odore della massicciata.
E poi le tratte ferroviarie in divisa grigioverde. Milano- Salerno a/r. Milano – Napoli a/r. Viaggi sempre più lunghi e sfiancanti. Affollati e maleodoranti. Fino al Napoli- Udine per la mia destinazione finale, senza ritorno. Ricordo bene il primo giorno di militare. Lo smarrimento, condiviso con altri, all’arrivo nella stazione di Salerno. Ci stavano aspettando con i camion per non farci eludere la ritirata in caserma. Qualcuno era sceso in fondo al treno per prendersi qualche ora di libertà in più.
(continua)
L’estate era quasi finita ma la temperatura, a metà settembre del 1978, era sempre elevata. Le esercitazioni nel cortile della caserma Cascino, un piazzale sterminato dove marciavo con altre centinaia di commilitoni, avevano l’unico scopo di prepararci al giuramento. Ma era stata l’esercitazione al poligono di tiro l’esperienza più sgradevole. Era prassi, nell’addestramento al CAR, che si dovesse sparare un intero caricatore e lanciare una bomba a mano. Forse avevo sbagliato nel tenere l’arma troppo accostata alla testa, sta di fatto che i colpi, sparati in successione, mi procurarono uno shock acustico. Mi fischiarono le orecchie per diverso tempo.
Tra marce forzate sotto il sole e uso alle armi mi consolai con il mio hobby. La passione per la fotografia mi aveva fatto acquisire un discreto ascendente. Scattavo foto a tutti i ragazzi della compagnia nelle pose più insolite. Invece delle banali foto da spedire alla fidanzata e ai genitori. Erano diventati modelli che si prestavano volentieri al mio estro registico e, in cambio, ricevevano copie delle foto veramente uniche. Mi distraeva molto.
La mensa era orribile e in libera uscita ci consolavamo con pizze e insalate capresi. In quel periodo la paga del soldato semplice era di 30mila lire. Potevamo frequentare solo pizzerie e l’unica volta che avevo varcato la soglia di un ristorante era stato il giorno del giuramento. Perchè in quel frangente erano rispuntati di nuovo i famigliari di Milano. Mia madre era venuta ad interpretare il suo ruolo. Aveva bisogno di sentire la coscienza a posto. In realtà voleva sfoggiare il nuovo taglio di capelli e indossare il miglior abito per l’occasione. Mostrarsi perfetta in pubblico era la sua massima ambizione. E con il giuramento le avevo offerto di nuovo un pretesto per quella farsa.
Per mia fortuna era facile assecondare il suo desiderio di famiglia unita, perchè l’ultima parola non era più la sua. Per quanto ci rimanesse male, decidevo io con quali persone trascorrere le scarse licenze. Per questo motivo accettavo volentieri l’ospitalità dei nuovi amici di caserma, quando mi invitavano a casa loro. Anche Mara si era rassegnata a vedermi poco. Lei rappresentava, suo malgrado, quell’ambiente dal quale mi volevo affrancare. Abitava solo due palazzi dopo il mio e tornare in quella strada era difficile e doloroso. Avevo necessità di allontanarmi da tutto il passato recente.
Era finito anche il CAR e la successiva tappa, ad ottobre, era stata la Scuola delle Trasmissioni a Napoli. Stessa cattiva mensa e identico ambiente militaresco, con i suoi riti dell’adunata e dell’alzabandiera, ma con l’aggiunta del corso per telescriventisti. La libera uscita però offriva l’esperienza di una città particolare come Napoli. Eravamo sempre in gruppo, quelli che si erano maggiormente affiatati. Insieme si scoprivano i miti napoletani, sconosciuti a noi che venivamo dal nord-italia. Le fregature al mercato dal venditore di radio-stereo, le sigarette di contrabbando, le scommesse al gioco dei tre bussolotti e le giovani prostitute. A differenza di Milano, dove andavano a cercarle, qui si offrivano mentre passavi loro accanto. A volte sponsorizzate dai fratelli più piccoli che sapevano riconoscere noi militari anche in borghese. Un mondo lontano anni luce dal nostro immaginario.
Napoli era una distrazione continua. E questa sua funzione mi faceva stare bene. Ischia, Capri, Amalfi, Pompei, o’ Vesuvio, mare, tanto mare. E ancora Posillipo, Mergellina, il lungomare Caracciolo, le alture di Capodimonte e del Castello del Vomero. Piazza del Plebiscito e i Quartieri Spagnoli erano le nostre mete preferite. Ogni libera uscita era un’esperienza divertente. Al porto, sulle banchine di attracco e nei locali circostanti, avevo visto per la prima volta i soldati americani di colore e sui filobus i ragazzini che si aggrappavano alle sporgenze per farsi il viaggio gratis. E i militari salivano in sei o sette sui taxi abusivi per andare alla stazione. La fine dell’anno arrivò velocemente.
La notte di San Silvestro ero stato comandato di guardia in una delle garitte poste lungo il perimetro della caserma. Intorno torreggiavano, molto più alti, come ad abbracciarla, i palazzi del quartiere. Ancora prima della mezzanotte si era scatenato il finimondo. Da tutte le finestre e i balconi sparavano razzi pirotecnici verso il grande cortile dell’area militare. I colpi erano assordanti, forse sparava anche qualche arma, e il cielo era completamente illuminato come fosse giorno. Era la guerra con i fuochi artificiali. Tutti i militari in servizio di guardia erano stati fatti rientrare all’interno per sicurezza. E il giorno seguente ne erano stati impiegati un numero notevole per ripulire i cortili dai residui.
Il Capodanno del 1979 era cominciato con un evento positivo. Avevo vinto alla lotteria interna un piccolo televisore. Era l’occasione per chiedere una licenza extra per portarlo a casa. Il comandante di compagnia, a questa richiesta, era rimasto basito. Si era aspettato che regalassi il premio alla compagnia, o meglio a lui. Probabilmente lo aveva messo in conto, dopo averlo messo in palio. Ero stato irremovibile. Non potevo tenere un televisore in camerata perciò la licenza era indispensabile. Il bastardo mi aveva dato solo 48 ore.
(continua)
Erano le cinque della mattina quando mi ero presentato , con il televisore in mano, alla porta di Andrea. Avevo avuto 48 ore per portarlo a Milano e ritornare in caserma a Napoli. Andrea, una ragazza austriaca passata, come me, dalla casa della professoressa Gioia, era la sola persona che potesse ospitarmi. Non mi aspettava. La mia visita l’aveva svegliata quel tanto che bastava per capire chi ero, poi era tornata a dormire.
Mi ero accomodato sul divano e provavo a dormire, dopo un viaggio in treno durato un’infinità di ore. Stravolto dalla stanchezza ma eccitato dal prossimo incontro con Mara. Questa licenza ci dava un’occasione non prevista ma, proprio per questa ragione, stimolante. Avevamo una casa a disposizione e un po’ di tempo da trascorrere in una intimità che era mancata da molti mesi.
Finita la scuola avevo lasciato la stanzetta di Bresso e, a parte la mia visita dove lei era stata in vacanza, non c’erano più state occasioni come questa. Era impensabile d’altronde incontrarci a casa sua, con i rischi corsi, e tantomeno dai miei. Stavo cominciando a tagliare i ponti e non li avevo nemmeno informati del mio arrivo. Ero qui solo per Mara.
Era una relazione che mi teneva ancora legato ad una persona speciale, che era stata l’ultimo momento sereno di un anno difficile. Un anno, terminato da pochi giorni, che aveva messo la parola fine a tante cose. Si era concluso il ciclo della scuola superiore, si era trasferita la mia professoressa-mamma, e, insieme a lei, Saudo. Animatore di tante escursioni in montagna, il burbero marito al quale rubavo la pipa e il tabacco. Entrambi avevano lasciato un vuoto che molti soffrivano. Io per primo, che avevo goduto della loro ospitalità. E anche tutti i compagni del liceo avrebbero preso strade diverse. Avrei perso anche loro.
Il Servizio militare era stato il discrimine tra il prima e il dopo. In mezzo stava Mara, un tenue filo che tuttavia, giorno dopo giorno, si sfilacciava. Ero consapevole che nel futuro non ci sarebbe stato più tutto questo. Ci eravamo amati e ora, con questo incosciente presentimento, ero in attesa di incontrarla.